Iva Berasi - articoli, lettere e interviste dalla stampa | |||||
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Trento, 17 maggio 2008 Ad Albiano i bimbi extracomunitari sono più del 12%, (in Trentino gli stranieri sono il 7%) e sono numerose le famiglie straniere che vivono in un territorio che ha fatto dell'attività estrattiva del porfido l'entrata economica principale, e dove quasi solo gli extracomunitari lavorano in cava. Il Consiglio comunale di Albiano ha votato recentemente all'unanimità di non dotare la polizia urbana di pistola. Sono altre le armi messe in campo da quella comunità per favorire la convivenza nella sicurezza: le relazioni umane e l'accoglienza. Niente ronde con camicia verde (che ricordano, ai nostri vecchi, camicie di un altro colore) a sorvegliare il territorio del paese, nessuna telecamera, ma la forza di una comunità che non vive il deserto delle piazze e delle strade vuote di sguardi e sorrisi, ma le riempie con iniziative culturali e sportive, con bimbi e giovani che imparano a conoscersi, rispettarsi, a non avere paura di chi parla un'altra lingua, ha la pelle di un colore diverso ed un Dio di un altro nome da invocare. È stato normale, per chi straniero, conoscere e rispettare le regole della convivenza del paese ospitante. Controllo, repressione, ronde, polizia, telecamere; parole attorno alle quali si dipana il dibattito sulla sicurezza, utilizzate a destra e a sinistra per rassicurare la gente che ha paura perché non si sente sicura. Il pericolo di furti in appartamento non è cresciuto più delle auto, dei motorini, delle case, la probabilità che ti succeda è dello 0,23% ma la paura di esserne vittima è del 23%; la percezione sociale dell'insicurezza è 100 volte maggiore della realtà e con questa dobbiamo fare i conti. Molti sono i servizi offerti a chi, straniero, arriva in Trentino per contribuire al nostro sviluppo, ma abbiamo mancato nel non accompagnare l'inserimento degli stranieri con azioni che favoriscano la conoscenza, l'accoglienza e quel controllo sociale dato dalle relazioni fra persone. Sotto la categoria “extracomunitario” generalizziamo e accorpiamo persone di etnie, religioni e cultura diverse, che tra loro poco hanno in comune. In qualche complesso edilizio pubblico, ma anche privato, che specula sulla necessità della casa e sulle difficoltà a trovarla, la concentrazione di stranieri non permette lo scambio e la conoscenza tra loro e nemmeno con i locali. Nei nostri piccoli Comuni quando si insediano in una sola volta 4 o 5 famiglie straniere assegnatarie di alloggi, non si sono previsti momenti di incontro con la comunità, iniziative di accoglienza e conoscenza, volte a mitigare l'impatto dell'arrivo di «sconosciuti». Una volta chi veniva da fuori era oggetto di curiosità, era individuato e conosciuto e poi accettato. Nei paesi ma anche in città le relazioni erano possibili, l'incontro era favorito da un tessuto sociale meno individualista e da buoni rapporti di vicinato. Ora i nostri anziani muoiono soli in appartamenti alla cui porta non suona nessuno per chiedere come va. Dopo giorni ci accorgiamo della loro assenza. Le città, ma anche molti paesi, non sono più luoghi di incontro e di relazioni sociali, non ci si muove più salutando chi si incontra, si cammina veloci a testa bassa e ci si rifugia in casa, dove il mondo esterno entra attraverso la televisione che dilata la solitudine di luoghi ormai anonimi e senza anima, che fanno i conti con un'espansione edilizia di speculazione, disattenta alla creazione di luoghi accoglienti che favoriscano l'incontro, la conoscenza, lo stare insieme. Ed allora il territorio della Cooperazione e della Solidarietà, che ha visto la propria gente andare via «straniera» nel mondo, emarginata ed umiliata, deve saper utilizzare la propria storia per contribuire alla costruzione di una comunità accogliente, forte della propria identità non di qualche camicia colorata che dilata la percezione di pericolo e delle «pistole», perché non sappiamo dove ci porta la lotta (armata e settaria) all'immigrato, ai romeni, agli zingari se non alla scoperta che sono i bersagli sbagliati, che la nostra paura è data soprattutto dal non sentirci parte di una comunità attenta al nostro stare, aperta al sorriso ed alla fraternità dove anche il «diverso» non è un pericolo, ma una ricchezza. Iva Berasi
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IVA BERASI |
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